Steve Hackett

To Watch The Storms

STANDARD EDITION TRACK LIST

Camino CAMCD31

Steve Hackett: vocals, guitar, optigan, harmonica, koto, rain stick, chimes, quattro; Roger King: piano, organ, synthesizer, vocoder, research & programming; Rob Townsend: brass, woodwind, whistles & one-man Serpentine chorus marching band; Terry Gregory: vocals, basses, pedals & thunder; Gary O’Toole: vocals, acoustic & electric drums, percussion with regular and ferocious beatings; John Hackett: flute solo on “Serpentine Song”; Ian McDonald: sax on “Brand New”; Jeanne Downs: backing vocals; Sarah Wilson: cello; Howard Gott: violin.

 
La versione cartacea della recensione potrete leggerla sul nuovo numero 42 di Dusk.
Visitate il sito ufficiale di Steve Hackett:
www.stevehackett.com

Vi presentiamo la recensione (completa) di Mario Giammetti, che troverete anche nel numero 42 di Dusk:

 
Il 26 maggio esce, un po’ a sorpresa, il nuovo album di studio di Steve Hackett. Sapevamo che le registrazioni stavano fluendo vorticosamente nel nuovo studio del chitarrista, appena completato, ma non immaginavamo che il successore di “Darktown” fosse già disponibile e, grazie alla consueta tempestività di Billy Budis, siamo già pronti a parlarvene, anche se ovviamente non abbiamo potuto dedicare a questo disco, per evidenti motivi (il CD ci è pervenuto nel pomeriggio dell’11 aprile, fate un po’ i conti…), il tempo e l’attenzione che avrebbe meritato. Questo perché “To Watch The Storms” è un album molto, molto pieno di sfumature, che merita ripetuti ascolti per essere apprezzato come si deve. Ma devo anche dire che, pur con pochi ascolti, il disco si fa apprezzare, e si piazza certamente più che decorosamente nella consistente discografia di Hackett. Prima di entrare nell’analisi di questo disco una doverosa parentesi. “Darktown”, il precedente album di studio, ha quattro anni sulle spalle. Ma nel mezzo Steve ha fatto di tutto e di più. Ha deciso di tornare sul palco con una band elettrica dopo ben sette anni di assenza (se eccettuiamo i quattro show giapponesi che han dato vita al doppio “The Tokyo Tapes”), scegliendo proprio l’Italia per il suo debutto live (luglio 2000). Ha messo mano al suo archivio, pubblicando uno splendido box quadruplo chiamato “Live Archive 70’s, 80’s, 90’s” nel 2001. Ha messo su un trio cameristico con suo fratello John e con Roger King per una serie di esibizioni che, una volta di più, a parte occasionali esibizioni in Giappone e Ungheria, ha preso piede soprattutto qui da noi, con ben tre diversi tour italiani lo scorso anno (aprile, luglio e novembre). Ha pubblicato il doppio live e DVD “Somewhere In South America” e avrebbe dovuto pubblicare “Hungarian Horizons” (un concerto del trio acustico registrato a Budapest nel gennaio 2002) proprio ad aprile, se non fosse sopraggiunto, inatteso, questo nuovo album di studio. Ma, prima di ogni altra cosa, Steve Hackett ha trovato una nuova band. Un’esperienza che gli mancava dal lontano 1980, quando, terminato il tour italiano (eh sì, il nostro paese ricorre con una frequenza spaventosa nella storia e nella carriera di Steve…), il chitarrista fu costretto a lasciare liberi tutti i suoi musicisti, affidandosi, di lì in avanti, soprattutto a collaborazioni importanti con i suoi tastieristi (rimase al suo fianco ancora per un po’ Nick Magnus, in seguito rimpiazzato da Julian Colbeck, Aron Friedman e più recentemente Roger King), ma noleggiando di volta in volta i musicisti che gli occorrevano, talvolta (come nel caso di “Genesis Revisited”) anche molto prestigiosi. E’ tuttavia opinione comune che i dischi registrati da Steve con una band (“Spectral Mornings” e “Defector”, anni 1979 e 1980) sono probabilmente i migliori. Un disco come “Darktown”, ad esempio, in mezzo a tanti ottimi spunti, denunciava anche la frammentarietà di un prodotto che era stato composto, ma anche registrato, nell’arco di molti anni. Da questo punto di vista, dunque, “To Watch The Storms” è un ritorno alle origini. Potendo contare sulla band che lo ha accompagnato nel suo ritorno elettrico dal vivo, Steve ha registrato questo disco prevalentemente negli ultimi sei mesi proprio con l’ormai fidatissimo Roger King, il batterista Gary O'Toole, il bassista Terry Gregory e il sassofonista-flautista Rob Townsend. Detto questo, entriamo nel dettaglio del disco, tenendo presente che ci stiamo basando sulla standard edition, ma che sarà messa in commercio, altresì, una versione limitata, che, oltre a ben quattro brani in più (“Pollution B”, “Fire Island”, “Marijuana, Assassin Of Youth” e “If You Only Knew”), comprende anche un booklet di 42 pagine (!) in formato digibook con molte note aggiunte di Steve e quadri di Kim Poor. Il disco si apre con “Strutton Ground”, brano rivestito di una atmosfera malinconica: sugli arpeggi di chitarra acustica si inserisce la voce triste di Steve, doppiata da una seconda voce sempre sua. Il sottofondo è costituito da un accompagnamento molto delicato, con rumori, suoni fischiati e altre stranezze, tutto frutto di quello strumento misterioso e affascinante che si chiama optigan. Un inizio molto struggente, che fra l’altro conferma ancora una volta che la voce di Steve non è affatto male se usata bene, e cioè con il supporto dei controcanti e senza costringerla ad inutili quanto controproducenti sforzi per raggiungere tonalità altissime. “Circus Of Becoming” inizia con accordi crescenti suonati da un organo da chiesa. Ma dopo appena mezzo minuto subentra una chitarra elettrica ritmica e un ritmo ridicolo forse eseguito con l’optigan. Si ascoltano anche delle linee di lead guitar e naturalmente la voce. Il brano sfodera tipiche stranezze hackettiane, ma dopo il ritornello c’è un altro intervento dell’organo su cui poi si inserisce una batteria potente e un riff di chitarra solista autoritario alla GTR. Dopo il subitaneo ritorno alla parte precedente, l’assolo di chitarra viene ripetuto, un po’ più lungo e con una variazione di accordi sul finale, che poi svanisce in suoni d’atmosfera. Altro pezzo curioso, specie nell’utilizzo di una voce bassissima e quasi canzonatoria, è “The Devil Is An Englishman”: il ritmo è sostenuto da un basso predominante e una chitarra arpeggiata, si sentono suoni e rumori d’atmosfera, ma dalla seconda strofa fa il suo ingresso una batteria molto moderna, in 4/4, e dei cori femminili. Poi vi sono esplosioni di chitarre tenute a basso volume: le tipiche bordate chitarristiche di Steve sfoggiano suoni ripetitivi e ossessivi, e un intervento dell’armonica si miscela ad altri rumori e persino, mi pare si sentire, a scratch, che verso il finale evolvono in una conclusione atmosferica. “Frozen Statues” è stata composta insieme a Roger King, che infatti suona una bella introduzione col pianoforte, su cui dopo un minuto si poggia la voce convincente di Steve. E’ un brano dall’atmosfera jazzy, in sottofondo si sente pure un suono di tromba, probabilmente eseguito da Roger King dopo aver campionato il suono di una vera tromba ai tempi di “A Midsummer Night’s Dream” (dritta passatami direttamente da Billy Budis). Molto intensa, mi piacerebbe sentirla con una tromba vera. Dopo circa tre minuti il brano cambia atmosfera e va a fondersi direttamente col pezzo successivo, la già nota “Mechanical Bride”, qui però iniziata in maniera diversa rispetto alle versioni live già ascoltate, tornandoci familiare con i ben noti stacchi ritmici, suonati in sincronia da batteria, basso, chitarra, sax, e la fase cantata su quelle buffe tirate di chitarra ritmica in levare. L’intermezzo strumentale è eccellente: dopo due minuti c’è una fase aritmicamente jazzata su cui Steve fa un sacco di assoli rumoristici non propriamente indispensabili, sui quali la batteria si sbizzarrisce. Belli gli stacchi centrali, con grande virtuosismo e tempismo di tutti i musicisti, al termine dei quali, però, prima di tornare agli stacchi iniziali come dal vivo, viene aggiunta un’ulteriore parte che ricorda quasi una marcia da cartone animato. Con una batteria molto presente, ascoltiamo un’ultima strofa e poi il finale con quella frase che Steve aveva usato in tour per anni nel finale di “Please Don’t Touch”. All’esplosione finale di tutti gli strumenti si sostituisce però il ritorno della marcetta in levare, che qui termina sfumata invece di chiudersi con un colpo conclusivo come avveniva sul palco. Suoni soffiati lontani e atmosferici introducono per quasi un minuto “Wind, Sand And Stars”, brano ispirato al romanzo omonimo scritto da Antoine de Saint-Exupéry (l’autore de “Il Piccolo Principe”) invece contraddistinto da una chitarra con corde di nylon, suonata in maniera spagnoleggiante, che sfoggia dapprima vari esercizi e virtuosismi, per poi dar vita, dopo un paio di minuti, a una linea melodica più ordinaria per quanto sempre pazzoide. In seguito subentra un pianoforte classicheggiante e dei violini di sottofondo molto belli, che creano un’atmosfera solenne e sognante che trovo adatta ad una colonna sonora e che mi ricorda alcune cose di “Defector”. Un arpeggio di chitarra acustica classicheggiante introduce anche “Brand New”, per poi lasciare spazio alla voce. Dopo la prima strofa, si inseriscono anche tutti gli altri strumenti, e in particolare è da rimarcare l’uso delle voci, un po’ alla Yes, con falsetti che cantano le armonie vocali. Un aspetto, quello delle armonie vocali, nel quale Steve, non dimentichiamolo, si è rivelato un maestro fin dal suo primo disco solista. La chitarra elettrica si limita a delle rifiniture poiché la canzone è sempre basata sulla classica, ma la batteria rutilante, il basso e le tastiere danno un grosso spessore ai ritornelli, lasciando il proscenio a bei fraseggi di chitarra elettrica come sempre sporcata da suoni strani. Intorno ai due minuti il brano diventa ancora più simile ad alcune cose degli Yes con un rallentamento e splendidi stacchi ritmici in controtempo, in seguito ai quali la chitarra svisa alla grande su una ritmica poderosa di basso e batteria. Intorno ai 3 minuti c’è una frase della chitarra più melodica, con tastiere dolci, poi un piano elettrico ribattuto che crea un’atmosfera quasi inquietante, in collaborazione con la chitarra acustica, che riprende uno splendido arpeggio dominante. Una canzone talmente varia che è impossibile annoiarsi, sulla quale è accreditato un intervento al sax di Ian McDonald. Siccome non riuscivo a distinguerlo, ho chiesto lumi a Billy Budis, che mi ha spiegato che Ian ha suonato nella parte centrale un riff armonico dal suono talmente duro che potrebbe sembrare una chitarra elettrica! Ancora una melodia triste disegnata dalla chitarra acustica su una base di tastiera introduce “This World”, una ballata d’amore condita da una ritmica soft e dalle voci di Steve. Nel ritornello i controcanti di Steve rendono molto bene la malinconia di un amore finito, con un buon lavoro del basso fretless e la marcetta lenta della batteria. Da segnalare anche un assolo di chitarra. Anche “Rebecca” (altro brano ispirato da un romanzo, “Rebecca” di Daphne De Maurier, una scrittrice che operò in Cornovaglia) comincia con una nylon guitar che esegue una frase che non mi giunge del tutto nuova, poi doppiata dal basso. L’ingresso delle voci di Steve intristisce la ballata, ma dopo due strofe l’atmosfera cambia, con la voce quasi meccanica e poi la chitarra solista su una ritmica dura e industriale, seguita da un inciso di chitarra acustica veloce mentre vari suoni si inseriscono nella fase strumentale. Infine l’atmosfera si calma nuovamente e torna la melodia, per un’altra strofa. “The Silk Road” è una canzone dall’atmosfera quasi etnica, contraddistinta dapprima da una strana chitarra elettrica, poi da un tappeto di percussioni. Più avanti si aggiungono altri suoni, peccato che la voce sia talmente filtrata da diventare quasi incomprensibile. Dopo una fase percussiva sostenuta e una chitarra solista c’è un simpatico inserto di koto, seguito da sferragliate di chitarra classica e elettrica. La base di percussioni si arricchisce di nuovi suoni, alcuni dei quali probabilmente elettronici, in un’orgia percussiva che ricorda gli esperimenti di “Till We Have Faces”. Da segnalare anche un bell’intervento del sax soprano di Townsend. Dopo un applauso registrato, inizia “Come Away”, un brano, come orgogliosamente puntualizzato dallo stesso Steve nelle note di copertina, a ritmo di mazurca, cosa non molto usuale in Inghilterra (molto di più nelle balere romagnole…). Al di là dei buoni interventi vocali, il pezzo è molto curioso specialmente negli stacchi ritmici alla fine di ogni strofa, al cui termine si inserisce un flautino buffissimo di Townsend. Ancora suoni di clavicembalo, pifferi etnici e fisarmonica a suggellare un brano ricco di strumentazione seppure difficilmente inseribile fra i migliori. “The Moon Under Water” è un pezzo per sola chitarra nylon dall’atmosfera rinascimentale e le consuete arrampicate chitarristiche di Steve. Il pezzo, che complessivamente dura poco più di due minuti, era stato in realtà già suonato in Italia da Steve, ricordo perfettamente che fu la prima canzone del set suonato a Todi. Ora, finalmente, sappiamo che titolo dargli! Gran finale con “Serpentine Song”, canzone dedicata al papà di Steve. Mr. Peter Hackett, scopriamo nelle note di copertina, a partire dagli anni ’60 ogni domenica metteva in vendita i suoi quadri nelle fiere di Bayswater Road. L’introduzione è con un suono corposo di tastiera su cui Steve inserisce deliziosi armonici di chitarra elettrica. Il canto è direttamente a tre voci (Steve, Gary e Terry), così come la ricordiamo dal vivo, e nel ritornello entrano una batteria jazzy ed elegante e sbuffi di flauto. La melodia di questa canzone è veramente meravigliosa, e anche se, come abbiamo detto in passato, ricorda molto “Talk To The Wind” dei King Crimson, non perde un grammo della sua bellezza. Nel mezzo vi è un assolo di flauto di John Hackett, che fa la sua unica apparizione su questo disco, mentre suo fratello Steve imbraccia una nylon guitar per arpeggiare benissimo, per poi prodursi in un assolo che in tour veniva eseguito con l’elettrica dal suono pulito. Nel ritornello successivo cambia un po’ l’atmosfera grazie all’ingresso delle percussioni e a un arpeggio di elettrica, mentre nella terza strofa si ascolta anche il suono di una fisarmonica. Dopo di questa, e prima del ritornello, ci sono altri armonici di chitarra elettrica, che danno spazio a un altro assolo del flauto, a cui poi si sostituisce un assolo di sax soprano che conduce il brano alla conclusione sfumata. Un brano bellissimo, senza dubbio fra i migliori che Steve abbia mai scritto nella sua lunga e gloriosa carriera. E, parlando di bilanci, magari è ancora presto per esprimersi. Ma mi sembra di poter dire che questo disco ci presenta uno Steve Hackett pienamente ispirato, ad ulteriore conferma della sua intatta creatività. Si è parlato di ritorno alle origini per questo disco, e vi sono sicuramente alcuni segnali: il ritorno delle grandi armonie vocali, caratteristica dei primi quattro o cinque dischi; l’utilizzo dell’optigan; soprattutto, come abbiamo già sottolineato, il ritorno di una vera band, per non parlare ovviamente della cospicua presenza di brani buffi, d’altro canto prerogativa di ogni disco di Steve fin da “Please Don’t Touch” (ricordate “Carry On Up The Vicarage”?). Ma laddove i primi dischi preferivano accentuare l’aspetto magniloquente e solistico della musica, indugiando in particolari che enfatizzavano l’aspetto romantico (in questo probabilmente Nick Magnus aveva un ruolo importante), qui c’è un impressionante coacervo di stili, influenze, ritmi e suoni che fa di Steve Hackett, una volta di più, un grande curioso e sperimentatore.
 

1. Strutton Ground

2. Circus Of Becoming

3. The Devil Is An Englishman

4. Frozen Statues (*)

5. Mechanical Bride

6. Wind, Sand and Stars

7. Brand New (*)

8. This World

9. Rebecca

10. The Silk Road (*)

11. Come Away

12. The Moon Under Water

13. Serpentine Song

SPECIAL EDITION TRACK LIST

1. Strutton Ground

2. Circus Of Becoming

3. The Devil Is An Englishman

4. Frozen Statues (*)

5. Mechanical Bride

6. Wind, Sand and Stars

7. Brand New (*)

8. This World

9. Rebecca

10. The Silk Road (*)

11. Pollution B

12. Fire Island

13. Marijuana, Assassin Of Youth

14. Come Away

15. The Moon Under Water

16. Serpentine Song

17. If You Only Knew

All the songs are written by Steve Hackett except (*) written by Steve Hackett & Roger King.