Peter Gabriel – remasters

La musica, le nuove edizioni

Come nel caso delle nuove versioni degli album dei Genesis, esaminiamo i remaster di Peter Gabriel e cogliamo l’occasione per ripercorrere le tappe dell’evoluzione musicale di questo grande artista. Come sapete esiste una vastissima bibliografia su Peter e ovviamente ripeterò molte cose già scritte (a proposito, a mio avviso ogni estimatore di Gabriel dovrebbe avere almeno questi tre libri: Sognando un mondo reale di Tommaso Ridolfi, Il trasformista di Mario Giammetti e, soprattutto per le foto, la biografia di Armando Gallo); mi limiterò comunque ad accennare alcuni temi centrali della sua carriera, cercando di evidenziare a grandi linee i progressi e i cambiamenti. Infine scenderemo nel dettaglio delle nuove edizioni, concentrandoci il più possibile sulle differenze nella qualità audio.

la musica

Il primo periodo della carriera solista di Peter Gabriel è all’insegna della ricerca della libertà espressiva e della spontaneità creativa. L’esperienza coi Genesis, pur avendo portato alle splendide opere d’arte che conosciamo, ha logorato Peter, facendolo sentire non più padrone del proprio essere artistico. Non a caso passano oltre due anni fra la sua uscita dal gruppo e il primo album: in questo periodo Peter cerca di recuperare un approccio umano all’arte, privo dei condizionamenti che il successo può comportare. Per queste ragioni i primi due album sono un misto di generi e atmosfere, ancora poco maturi e personali, se confrontati ai dischi successivi, tuttavia già ricchi di feeling creativo e di una certa ricerca sonora. Alla produzione si avvicendano due persone di primo piano nel panorama rock, che però si trovano quasi agli antipodi in quanto a concezione dell’opera d’arte.

Produttore di I è Bob Ezrin, poco incline alla sperimentazione e molto attento alle soluzioni di sicuro e facile impatto emotivo. Suo è essenzialmente l’impulso agli arrangiamenti pomposi di brani come Here Comes The Flood (che Peter intendeva eseguire solo al piano, come infatti farà nei concerti live, poi su Exposure di Robert Fripp e anni dopo su Shaking The Tree), Moribund The Burgermeister, Humdrum, Slowburn e soprattutto Down The Dolce Vita. In questi brani è evidente che i Genesis non sembrano un capitolo chiuso e, se Peter intendeva dare un’immagine di rinnovamento, il sound costruito da Ezrin si rivela senz’altro controproducente. L’album, in complesso, è estremamente gradevole, con una giusta alternanza di brani elaborati e tracce più distese (Solsbury Hill, che nel testo spiega i motivi della fuga dai Genesis) e istrionicamente spiritose, come Excuse Me e Waiting For The Big One. Il tour di I riscuote grande successo: in scaletta c’è solo il bis a ricordare i Genesis (con una strepitosa Back in NYC molto punk), poi molte cover e alcuni brani inediti, tra cui la celebre Why Don’t We? (alcuni stralci della quale finiranno su Family Snapshot), uno splendido brano progressive, di sicuro la composizione gabrieliana più vicina al repertorio Genesis e proprio per questo messa da parte e mai registrata.

A poco più di un anno di distanza da I viene pubblicato II, prodotto da Robert Fripp. Pur restando una certa eterogeneità nelle atmosfere, il nuovo lavoro di Peter è molto più curato nelle composizioni e negli arrangiamenti. Fripp, infatti, è sempre stato uno degli alfieri della sperimentazione e incoraggia molto Peter a cercarsi un sound più personale. Buoni gli intenti, ancora insufficiente il risultato, visto che pur tra moltissime canzoni stupende (Mother of Violence, White Shadow¸ Indigo, Flotsam and Jetsam), questo album non riesce a dare la spinta innovativa che Peter e Robert cercano. L’unico accenno a quello che sarà il futuro sound di Peter si ha nel basso di Levin, già capace di intensissime partiture, a metà tra la percussione e la melodia (specie in White Shadow e, con lo stick, in DIY). Il canto di Gabriel, che con Mother Of Violence e l’allucinante Home Sweet Home raggiunge i vertici espressivi di questo album, abbandona gli istrionismi di I ma acquista in espressività e pulizia tecnica. Discorso a parte merita il brano più celebre di II, cioè On The Air, che mi sembra una specie di cover di The Lamb Lies Down On Broadway: arpeggio veloce all’inizio, due strofe tirate, intermezzo lento e terza strofa con il grido di “Mozo is here!” che fa tanto “I’m Rael!”. L’impatto live di questo brano era dirompente, oggi forse le sonorità del ’78 rendono meno irruente e quindi meno efficace questo pezzo. I primi due album di Peter, in definitiva, sono ancora un “cercare la via”, due bei dischi di canzoni sincere e coinvolgenti, che spaziano tra stili differenti ma mai veramente innovativi.

La svolta avviene durante la composizione dei brani per III, un’idea semplice, come tutte le trovate geniali: rovesciare gli schemi creativi, invertirne il processo. Si parte dallo scheletro della canzone per costruire sopra la struttura, si parte dal ritmo. L’utilizzo sapiente di nuovi strumenti di avanguardia come il prophet e il fairlight fa scattare a Peter la molla della ricerca di nuove sonorità da applicare alla sezione ritmica e questa volta i risultati sono veramente inediti nel panorama musicale contemporaneo, grazie anche alla disinibita produzione di Steve Lillywhite. Tutti i brani di III hanno un respiro creativo strabiliante: Intruder diventa il manifesto del nuovo corso di Gabriel, con la batteria priva di piatti di Phil Collins a far sobbalzare a ogni ascolto, poi chitarre lacere, assoli distorti, una voce che graffia davvero. Ogni traccia di III ha propri motivi di interesse, impossibile non citare almeno Family Snapshot, Lead A Normal Life e Biko, il brano di Peter più celebre al mondo, che inaugura una lodevole serie di iniziative di Gabriel a difesa dei diritti umani.

Sull’onda dell’entusiasmo per un lavoro così riuscito e apprezzato Peter si spinge oltre nella realizzazione di IV, nel quale non solo il ritmo, ma tutta la struttura sonora delle canzoni è manipolata allo scopo di raggiungere lidi sonori inediti. Circondato da collaboratori fidatissimi, come il produttore David Lord, una specie di guida tecnica permanente, Peter è un maestro di umiltà, pazienza e fantasia nel cercare di combinare insieme influenze estranee al mondo del rock. Il risultato che si apprezza in brani come The Rhythm Of The Heat, San Jacinto, The Family And The Fishing Net e Lay Your Hands On Me lascia ancora oggi sorpresi per la straordinaria efficacia delle soluzioni sonore e creative proposte. Musica ed emozione insieme, sensazioni fisiche emulate dai suoni sconosciuti scovati da Peter, uniti a testi che parlano di magie, di stregoni e rituali. Ancora impegno sociale, stavolta con la struggente Wallflower, con il piano di Lord e Gabriel che sembra un brusco e doloroso ritorno alla realtà, dopo tutte quelle sonorità astruse. Ma c’è anche spazio per il pop di grande classe, con I Have The Touch e soprattutto Shock The Monkey, che farà di Gabriel una star.

Raggiunto il successo planetario Gabriel inizia a dilatare le sue composizioni, concedendosi due importanti parentesi. Si inizia con Plays Live, doppio album dal vivo con una scaletta che raccoglie quasi tutti i migliori momenti creativi di Gabriel. Peter è un artista che sul palco dà sempre il meglio di sé, che vive i concerti con sincerità e trasporto. A questo non sempre si accompagna la perfezione tecnica e purtroppo, da perfezionista qual è, Gabriel, per paura che si sentano degli errori, finisce per rovinare la resa di tutti gli album live a cui abbia mai partecipato, ricantandone molte parti. Plays Live non fa eccezione: le sovraincisioni non sono pacchiane ed evidenti come, ad esempio, in Secret World o, peggio ancora, in quell’ignobile falso storico che è l’Archive dei Genesis, ma comunque molto evidenti. La spontaneità, il feeling, insieme anche agli errori, certo, sono cancellate insieme ai nastri originali, per lasciare spazio a delle pulite, carine, perfettine, pallose, finte incisioni-live. Peccato, e viva i bootlegs!

Seconda e più importante parentesi è la stesura della colonna sonora del film di Alan Parker Birdy, che avviene, come chiaramente evidenziato in copertina, con del materiale riciclato. Naturalmente una colonna sonora va commentata per come si adatta al film, ma in questo caso si può comunque affermare che il sesto album di Peter sia un lavoro riuscito anche di per sé. La rielaborazione del materiale preesistente è suggestiva e moltissime tracce (Floating Dogs, Slow Marimbas) sono di un’atmosfera definita e incombente.

Si torna a fare sul serio con So, uscito a metà del 1986. La copertina, con il volto di Peter finalmente privo di schermi, tagli e sofferenze suggerisce una maturità pienamente acquisita, un volto da mostrare senza filtri. Gli elementi dei dischi precedenti ci sono tutti, ma la confezione sonora è diventata incredibilmente accessibile e riconoscibile. Non credo esista fan che non abbia urlato al primo ascolto di Red Rain o non si sia lasciato commuovere da Mercy Street o Don’t Give Up. Il segreto di queste composizioni sta nella sincerità espressiva, nel fatto che sono vissute e per questo non sanno di mestiere. La ricerca è andata avanti, gli arrangiamenti sono ancora originalissimi, ma rispetto a III e IV acquistano in immediatezza. Nelle altre tracce di So si avvicendano episodi più ludici (Sledgehammer e Big Time) e sperimentazioni non sempre convincenti (That Voice Again, We Do What We’re Told, vecchio brano completamente riarrangiato che Gabriel eseguiva in concerto da anni col nome di Milgram’s 37, una condanna alle torture ispirata all’omonimo esperimento).

La fine degli anni ’80 vede Gabriel affermarsi come una delle più eminenti figure del panorama rock mondiale, citata volentieri da chi segue la buona musica, stimata universalmente per la sua vena artistica che pare inesauribile, ma anche per la sua umanità, per il suo impegno sociale. Peter, da parte sua, sempre più perfezionista, più sognatore e cosmopolita, dà vita alla sua ultima rivoluzione: collegare il rock alla World Music. Mischiare influenze, ritmi, atmosfere, strumenti di tutto il mondo. Pretesto per portare a compimento un progetto così ambizioso è la preparazione della colonna sonora per “L’ultima tentazione di Cristo”, il film di Martin Scorsese. Ma è impossibile ridurre un album come Passion a semplice colonna sonora. Si tratta, infatti, di un vulcano di suoni, colori, profumi e seduzioni che sembrano provenire da un altro mondo. Peter stesso insiste sempre nel sottolineare come Passion sia stata la tappa più importante nella sua crescita creativa degli ultimi 15 anni. Naturalmente non si tratta di un disco facile: quasi 70 minuti di sola musica, ma ricchi di sorprese. Ci sono danze e melodie tradizionali nord–africane rielaborate, poi strumenti sconosciuti o dimenticati, cori angelici, spiritualità. Un’esperienza emotiva per orecchie pazienti e, forse, un po’ colte, abituate ad ascoltare la musica, non solo a sentirla. Brani come Zaar, A Different Drum, With This Love, Passion aprono un nuovo istmo di Suez per il rock, che può viaggiare verso soluzioni nuove, quali infatti saranno quelle di Us.

Uscito nel 1992 il nono album di Peter (lasciando fuori dal conto l’inutile raccolta Shaking The Tree, che ha il solo merito di far continuare a parlare di Peter in un momento di quasi silenzio creativo) Us è un nuovo manifesto di stile per il panorama musicale internazionale. Le influenze afro–asiatiche, stavolta, sono evidentissime in quasi tutti i brani. La struttura rock delle canzoni resta evidente, ma è comunque difficile rintracciare il suono dei normali strumenti rock. Us è un progetto completo, ambizioso, difficile, che non sembra possibile possa provenire da un artista arrivato, ma che invece sorprende di nuovo per innovazione, feeling creativo, qualità artistica. Fa quasi piacere che Steam e Kiss That Frog non siano bellissime canzoni, altrimenti si sarebbe potuto gridare al miracolo; invece Peter tratta in Us argomenti molto quotidiani e personali, ancora una volta composizioni sincere e accorate. È il vivere normale, con le gioie e i problemi, a scaturire dai versi di Only Us, Digging In The Dirt, Come Talk To Me. La voce di Peter è ormai capace di variazioni di registro entusiasmanti, anche se con l’età si è progressivamente ridotta l’estensione.

Nove album importanti, influenti e invecchiati complessivamente molto bene. Alcuni temi sono presenti in tutta la discografia gabrieliana. Per fare un elenco grossolano pensiamo al viaggio al cuore del suono, che progredisce di album in album, giungendo alle meravigliose commistioni del Peter anni ‘80–’90; all’interesse per i diritti umani e la sofferenza prodotta dall’uomo (Mother Of Violence, Milgram’s 37, Games Without Frontiers, Not One Of Us, Biko, Wallflower, Mercy Street, Don’t Give Up ecc.); alla seduzione per il magico e l’apocalittico (tutta la saga di Mozo, da On The Air a That Voice Again, ma anche San Jacinto, Here Comes the Flood); al sense of humour vario nelle atmosfere e nei temi (Waiting For The Big One, Kiss That Frog). Una stupenda collezione di canzoni, di ballate pop, di scorci da mondi lontani, di suoni arcani, di suggestioni della fantasia, di divertimento. Una produzione coerente e sincera, come solo gli artisti veri sanno fare.

la grafica

Queste nuove ristampe sono pubblicate in due versioni diverse: una normale e una limited edition mini vinyl CD. I commenti che leggete di seguito si riferiscono a quest’ultima versione, che, buona grazia della Virgin, è in vendita a prezzo pieno, quindi preparatevi a un autentico salasso. Non è questa la sede e quindi non sprecherò molte righe in insulti alla casa discografica per questa scelta, spero solo che falliscano presto e che finalmente la gestione delle opere d’arte possa tornare a essere esclusivamente in mano agli artisti stessi.

L’aspetto grafico delle nuove versioni è veramente pregevole: innanzitutto la qualità della stampa è favolosa e tutte le copertine sono state restaurate da Dan Blore. Non si tratta, come era nel caso delle miniature giapponesi dei Genesis, di copie identiche all’originale in scala, ma di vere e proprie rielaborazioni. In ogni copertina la scritta Peter Gabriel e il titolo si trovano in un adesivo attaccato in alto a destra, che personalmente detesto. Se è giusto dare spazio all’artwork, perché coprirlo con un altro adesivo (oltre all’ignobile pecettone argentato della SIAE)? La confezione è apribile e all’interno la carta è tagliata in modo da formare la sagoma del numero dell’album. Una busta contiene il CD e riporta le costine dei master dell’album. Poi c’è il libretto, con tutti i testi (impaginati senza gli a capo, una scelta veramente irrispettosa della poetica, oltre che scomoda per leggere) e molte foto, anche inedite. In generale, comunque, un bel lavoro grafico, che però non rende giustizia alle versioni originali.

il suono

L’aspetto più importante di queste ristampe, ovviamente, è la parte sonora, la rimasterizzazione. Naturalmente i nuovi dischi si sentono meglio, frusciano di meno e hanno una migliore equalizzazione, più calda. In generale la resa del basso e della voce è straordinaria, i suoni di sottofondo sono più nitidi e la riconoscibilità dei singoli strumenti è migliore. I CD hanno tutti un volume d’uscita più alto, anche se in III e in Birdy la differenza è veramente minima, tanto che questi sono i due album in cui è meno percepibile la differenza in meglio del suono. Discorso a parte merita II, la cui incisione è veramente rivoluzionaria, dato che coinvolge le sonorità di tutti gli strumenti in tutte le canzoni. Rispetto alla versione vecchia sembra di ascoltare un altro disco e i suoni sono finalmente tornati a essere come quelli del vinile, ma più profondi i nitidi. Vi basterà ascoltare la batteria delle tracce numero 2, 5, 7, 8 per capire quanto sia stata falsata la resa audio nella vecchia versione. Complessivamente, invece, i risultati migliori si hanno ovviamente in So, Passion e Us, che erano già incisi molto bene: in queste nuovi versioni il calore del suono è davvero strepitoso. La durata dei singoli CD in alcuni casi è diversa, ma mi pare di poter affermare che i brani hanno tutti lo stesso missaggio, salvo minime differenze in On The Air (intro di qualche secondo più lungo), Moribund The Burgermeister, Here Comes The Flood e San Jacinto (coda appena più lunga).

In conclusione non possiamo che essere molto soddisfatti di questa serie di CD, ma chiudiamo con tre domande che gridano vendetta:

1- Perché il prezzo è così alto?

2- Perché non includere la versione integrale di Plays Live e non solo il suo riassunto?

3- Che c’entra con la discografia ufficiale la raccoltaccia Shaking The Tree?

Simone Mazzilli